Lo scemo del paese – su Maccu: contro l’ipocrisia del politically correct.

Chiunque abbia vissuto per un po’ di tempo in un paese della Sardegna si sarà accorto di come, all’interno della comunità, convivono spontaneamente e in una linea orizzontale, buoni e cattivi, ricchi e poveri, intelligenti e stolti.

Il cosiddetto scemo del paese, su maccu non è trattato allo stesso modo in cui una società “moderna” lo tratterebbe, ma è completamente integrato all’interno della comunità. Integrato in tutti i sensi: non ci si risparmia con una finta ipocrisia nel dire che quello è uno scemo, unu maccu, ma proprio per questo si può considerare parte integrante della comunità. Capisco quanto questo sia difficile da comprendere, in un’epoca in cui si è costretti ad affermare che tutto è uguale a tutto per non essere catalogati come razzisti o omofobi.

Ho iniziato a notare questa peculiarità, che fino a quel momento mi era sembrata normale, proprio perché, avendo vissuto in grandi città sin da ragazza, non potevo ignorare la differenza nel modo in cui una persona ai margini viene trattata in una grande metropoli. Sia in famiglia che altrove, ho potuto osservare con i miei occhi come persone con evidenti difficoltà di integrazione, dovute a deficit mentali, fisici e/o caratteriali, non siano mai state lasciate sole. In un posto come Berlino quelle stesse persone si troverebbero nei sotterranei della metro a chiedere l’elemosina e d’inverno, probabilmente, morirebbero di ipotermia durante una notte gelata.

Nelle città infatti, il cosiddetto politicamente corretto, che altro non è che la burocratizzazione di una pratica che poi non si mette mai in pratica, costringe le persone a non pronunciare mai le differenze, anche le più visibili, ma questo non si traduce quasi mai in una vera e propria inclusione. Non si osa mai dire che quella persona è diversa, ma quella persona è de facto emarginata in modo più subdolo. Certo gli si dà qualche spicciolo quando lo si incontra negli angoli più remoti della città, e forse lo si fa’ anche per sentirsi la coscienza un po’ meno sporca. E d’altronde, come si può non sentire il peso sulla coscienza mentre, seduti al caldo in un ristorante, serviti e riveriti, si osserva dalla finestra un essere umano accartocciato in un angolo di strada, mentre il termometro là fuori è sotto lo zero. Ma questa è un’altra storia.

Dicevo, mentre in una città dire apertamente che qualcuno è maccu è proibito, ma questo qualcuno viene comunque emarginato in modo sottile, nei paesi succede esattamente il contrario: nessuno, neanche le persone più abbienti si risparmiano nell’ammettere che la persona in questione sia diversa e, spesso vengono anche fatte battute sarcastiche su e con la stessa,  ma è proprio questo che la rende alla pari degli altri. Scherzare su qualcuno significa appunto riconoscerlo come parte integrante della società. Se fosse davvero escluso, nessuno si prenderebbe la briga di prenderlo in giro, perché sarebbe un estraneo. È un’inclusione attraverso la schiettezza, che è molto diversa dal finto rispetto delle società più formali.

La cosa ancora più incredibile è che, se qualcuno supera il limite e inizia a maltrattare su maccu, approfittandosi di lui e tentando di umiliarlo o sfruttarlo, finisce per essere schernito a sua volta. È successo, ad esempio, che alcuni ragazzini prepotenti abbiano abusato di uno di loro, suscitando uno sdegno collettivo disarmante.

Ed è straordinario quanto questa nei paesi sardi sia una regola condivisa proprio da tutti: Bordieu direbbe che questo è l’esempio di un habitus sociale, ovvero non il risultato di un ragionamento astratto o di una legge scritta, ma di un’abitudine collettiva, un modo di fare che, retaggio di una società comunitaria, viene assorbito da chiunque ne faccia parte.

Questa inclusione poi si concretizza nella quotidianità: nel mio paese, per esempio, ci sono dei ruoli specifici che queste persone ricoprono, alcuni hanno il compito di consegnare i giornali, di spazzare la strada, altri quello di vendere i biglietti della lotteria per le feste comunitarie, e così via. Ognuno trova il suo posto, e il fatto che queste persone abbiano dei nomignoli o soprannomi specifici, non li pone ai margini, al contrario: i soprannomi in Sardegna ce li hanno tutti (o quasi), tanto che di molte persone non si ricorda il vero nome perché vengono chiamate solo con il  nomignolo da decenni (che di solito racchiude in un’espressione l’essenza più profonda di quella persona).

In un mondo “emancipato” dove tutto sembra uguale a tutto, ma in cui razzismo e omofobia si manifestano in modi sottili, dovremmo chiederci cosa significhi davvero voler includere gli altri. La vera inclusione inizia nell’ammettere la diversità, perché solo così anche le figure più bizzarre, strane o emarginate possono trovare il loro posto in una società. È un’accoglienza autentica, senza ipocrisie, come quella delle nostre nonne, che non facevano distinzioni: mia nonna, sarda e risoluta, avrebbe aperto la porta allo stesso modo tanto a un miliardario quanto a un poveraccio. 

1 commento

Rispondi a Elisabetta usai Annulla risposta