Le storie che il sale conserva: ciò che resta dei nostri gesti più antichi

Tra le tante storie che si raccontano nel mio paese, uno dei protagonisti ricorrenti è una cosa che usiamo veramente tutti, ogni giorno: il sale.

Il sale è sempre stato considerato sacro e divino, specialmente nelle culture mediterranee. Platone lo descriveva come caro agli dèi, le sacerdotesse dell’antica Roma preparavano la salsa salata per il sacrificio alle divinità: la carne da sacrificare era valida solo se salata. Nell’ebraismo nacque persino il concetto di “patto di sale”: un’alleanza eterna, incorruttibile, perché il sale “non si rovina” mai. Mangiare sale insieme significava sigillare una fedeltà. 1

Essendo pratiche provenienti da un mondo comunitario antico e dal folklore, la chiesa impiegò molto tempo a decidere se le convenisse o meno integrare il sale nei propri riti: lo tollerò, lo assorbì e lo condannò a periodi alterni.

In Sardegna si diceva che rovesciarlo sul tavolo portasse sfortuna, ma tirarlo dietro di sé sopra la spalla portasse bene. Spargerlo in casa aiuterebbe a scacciare gli spiriti maligni
Essere “saviu”, salato significa essere intelligente, mentre essere “bambu”, insipido, senza sale è il contrario. 

Mia nonna, per esempio, metteva del sale all’interno di un panno di stoffa e lo cuciva. Questo panno veniva portato con sé da mio nonno come un amuleto, come una protezione. Se funzionasse o meno, non lo sappiamo, ma se è vero che mio nonno era un pastore e stava fuori paese per parecchio tempo, è anche vero che in questo modo si portava un pezzetto di casa a presso e sono sicura che questo gli dava un po’ di conforto.

Ma c’è un’altra storia interessante che mio nonno racconta: in tenera età, circa 7-8 anni, aveva i porri alle mani e sua madre, dopo tanti tentativi, andò da un’anziana signora del paese a farsi dire come fare. Questa le disse di recarsi nella fontana del paese, la fontana de “sa coiedda” e di buttare il sale a “palas issecusu”, ovvero con le spalle rivolte verso la fontana. Lo fece, e i porri sparirono davvero, dice lui. 

Questa donna, una delle tante guaritrici in questi paesi, un po’ erboriste, un po’ psicologhe e un po’ sacerdotesse, consigliò alla mia bisnonna un gesto chiarissimo: gettare via il male, non guardarlo più, lasciarlo nell’acqua che scorre. Voltarsi significa “non dargli potere”.

L’acqua della fontana avrebbe poi fatto il resto, perché l’acqua cancella, porta via e scioglie.

Guardare questi riti con gli occhi della modernità e pensare che i nostri avi fossero ingenui non ha senso: il punto è che per le persone, questo era un modo di affrontare il buio, di dare forma all’ignoto, e il corpo spesso risponde alla sicurezza di un gesto simbolico, allo sblocco emotivo.

Erano dei riti che servivano a dare forma alla paura, a trasformarla in un gesto: trasformarla in qualcosa che la mano potesse fare. Con cose semplici come un panno, il sale e l’acqua, le famiglie tentavano di affrontare l’incontrollabilità della vita. 

Era un modo per stare al mondo.

  1. https://www.firstsociallife.org/2020/12/08/i-riti-del-pane-e-del-sale-nel-mediterraneo-edouard-de-laubrie/ ↩︎

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