“Gli uomini, bisogna vederli dall’alto…Quando si è sullo stesso piano degli uomini, è molto più difficile considerarli come formiche: ci toccano.” (J. P. Sartre, Erostrato)
È diventata quasi una moda ripetere frasi fatte come “viaggiare è importantissimo” o “viaggiare apre la mente”. Le sentiamo ovunque, da anni, ma solo dopo aver viaggiato abbastanza mi sono accorta di una cosa: non mi ero mai chiesta davvero perché queste frasi si ripetono così spesso (e forse nemmeno chi le dice sa spiegarne il senso).
Un giorno lessi questa frase di Sartre: “Gli uomini, bisogna vederli dall’alto…Quando si è sullo stesso piano degli uomini, è molto più difficile considerarli come formiche: ci toccano.”
In una società totalmente basata sul profitto, sulla carriera e sul raggiungimento di “obiettivi tangibili”, le motivazioni che ci si racconta quando si va via di casa molto giovani sono: che lo si fa per motivi di studio, per cercare un futuro migliore in termini economici, talvolta per imparare una lingua diversa, perchè in italia gli stipendi sono troppo bassi e blablabla. Tutto vero, per carità.
Ma al di là delle scuse razionali che ci raccontiamo per evitare motivazioni più profonde, mi accorsi che tutto quello che mi dicevo mentre chiudevo la valigia era effimero, se paragonato al cambiamento vero che dovevo affrontare lontano dal luogo in cui ero nata: guardare quel posto dall’alto, vederne pregi e difetti. Guardare le persone, le piccole comunità, le abitudini, le regole non scritte, come un formicaio: tante vite piccole, che corrono, che si intrecciano, che si muovono con uno scopo difficile da capire, quando si è troppo vicini.
Infatti, è difficile vedere con chiarezza una realtà, quando si è parte di quella realtà: non possiamo vedere le persone come delle formiche, perché ne sentiamo le emozioni, ne cogliamo le espressioni, le rughe, il sudore. Siamo distratti dal fatto che, quelle persone, sono degli esseri umani come noi e hanno le loro paure, le loro angosce. La loro vita è basata sulle nostre stesse regole e ne siamo troppo empatici.
Andarcene ci permette di crearci paure, angosce, regole diverse; ci permette di dimenticare per un pò di tempo le motivazioni che ci legavano a quel posto, di dimenticare quelle rughe, quelle espressioni, quel sudore. Ciò che rimane è una macro riproduzione di tante piccole azioni che, paragonate alla vita nuova che ci stiamo costruendo, ci danno molte risposte a delle domande che neanche sapevamo di averci posto.
Paradossalmente, ho iniziato a capire davvero la Sardegna solo dopo essermene andata. Ripensando ai miei primi diciannove anni sull’isola, la sensazione più spontanea è quella di paragonarmi a quel pesce della storia raccontata da David Foster Wallace in “Questa è l’acqua”: un pesce, nato e cresciuto nel mare, era immerso in qualcosa che non riusciva nemmeno a riconoscere. L’acqua, appunto.
Sì, quel pesce ero proprio io: immersa in un sistema di regole non scritte, in una terra attraversata da una crisi d’identità profonda, sempre in bilico tra ciò che ha conosciuto, “su connottu”, e una modernità che ha travolto tutto.
Una terra contraddittoria, che in quel momento era veleno per me, ma che sarebbe diventata la mia medicina solo dopo averla guardata da lontano, capita e accettata.
E soprattutto, da lontano, osservando quel frammento di mondo, ci ho rivisto me stessa là dentro, come una formica.Perché, diciamolo, l’idea che si viaggi per conoscere altre culture è, in fondo, una balla. Si viaggia per conoscere se stessi.
È solo nel confronto con contesti radicalmente diversi che iniziamo a vederci davvero e, guardando noi stessi con uno sguardo diverso, capiamo molto di più anche del posto da cui veniamo.