In una stanza di ospedale, una donna di 98 anni cerca il contatto umano. Ha un atteggiamento oggettivamente estenuante, perché ha molte dimenticanze, è mezzo sorda, perciò bisogna ripeterle le cose molte volte. Le sue frasi sono sconnesse e le sue richieste oggettivamente inutili.
Un’infermiera entra per l’ennesima volta nella stanza, le risponde molto sgarbatamente e con un tono di voce molto alto. La vecchietta si zittisce e poi si lamenta a voce alta, frustrata.
Questa ragazza è molto giovane ma fa sicuramente un lavoro che non ama, pensai.
Più tardi, entra in stanza un’altra infermiera e, mentre si accinge ad attaccarmi la flebo, inizia a lamentarsi e a dire che è stanca, che è confusa e che non ha capito bene il modo in cui somministrare la mia medicina. Allarmata le dico “Nell’altro reparto, stamattina, il dottore mi ha detto che questa medicina deve essere somministrata per un massimo di 6 ore”. “Non so quanto duri l’infusione” risponde lei, senza prendere in considerazione ciò che avevo detto.
Più tardi ancora, mentre consegnavano la cena, un altro infermiere evidentemente svogliato che camminava trascinando le ciabatte per tutto il corridoio, mi disse “Signorina, non abbiamo il suo pasto perché dall’altro reparto non l’hanno inserita nel sistema. Vuole un insalata?”. Già alterata dal caos in cui ero stata gettata, dissi che l’insalata se la poteva mangiare lui e che esigevo la mia cena. Mi ignorò, posando l’insalata sul comodino e 2 fette di pane recuperate da qualcuno che non le ha volute.
La mia infusione durò 11 ore (il dottore stamattina ha confermato che doveva durarne solo 6) e io ho rimediato alla mia cena acquistando del cibo nei distributori automatici, perché l’insalata ha riempito il mio stomaco quanto una biglia farebbe in una cattedrale.
Essere un infermiere è un lavoro molto delicato: si ha a che fare con persone che stanno male, con persone i cui dolori dovrebbero essere smorzati prima dal calore umano che dagli oppioidi, persone che sono là dentro perchè là dentro hanno riposto una speranza: la speranza di non essere guardati come dei numeri, ma come degli esseri umani.
Allora, prima di imparare a prelevare il sangue, un infermiere dovrebbe imparare a capire che cos’è l’empatia.
Così come dovrebbe impararlo un dottore prima di dimenticare che la separazione cartesiana tra mente e corpo, nella pratica non esiste, nonostante la maggior parte dei medici si ostinino a categorizzare le persone come un ammasso di organi, la cui funzionalità dipende solo da operazioni matematiche.
Dovrebbe impararlo un impiegato delle poste quando risponde scocciato a una vecchietta che tenta di capirci qualcosa sui nuovi metodi tecnologici che hanno invaso i suoi risparmi.
Dovrebbe impararlo un insegnante, che non si accorge di fare uno dei lavori più importanti e determinanti del mondo, quando meccanicamente e senz’anima ripete come una filastrocca l’ABC delle enciclopedie, mentre i suoi alunni sbadigliano chiedendo a un Dio a caso che chiuda il becco il prima possibile.
James Hillman diceva che ognuno di noi ha una precisa vocazione nella vita: il nostro compito è trovarla e realizzarla. Quando una persona fa ciò per cui è nata, il lavoro diventa una forma di espressione e di servizio agli altri.
Generalmente si fa esattamente il contrario: si lavora solo per ricevere lo stipendio, e si sceglie la sicurezza invece che la realizzazione. Lo schema più diffuso è: scuola → università → lavoro sicuro → pensione.
Il risultato? Siamo circondati da infermieri frustrati e senza empatia, da insegnanti svuotati, da impiegati incattiviti con il mondo,
Quando andiamo in un ristorante, abbiamo a che fare camerieri scortesi. Gli uffici straripano di burocrati poco inclini al sorriso, i supermercati pullulano di cassieri che solo a guardarli ti viene la disperazione e gli autisti pubblici hanno la noia stampata in faccia.
Eh sì, lo so che non sempre è possibile fare un lavoro che si ama follemente. Ma questo non giustifica il nostro essere dei cancri sociali che infettano di tristezza tutto ciò con cui entrano in contatto: sta a noi trovare il modo di esprimerci altrove.