Se dovessimo descrivere la nostra epoca con una parola, questa sarebbe: correre.
E non correre per puro svago, ma correre più degli altri.
La comunicazione globalizzata ci sbatte costantemente davanti agli occhi termini di paragone irraggiungibili. Ci sono geni precoci che, a vent’anni, hanno già due lauree, atleti olimpici giovanissimi con prestazioni incredibili.
Se hai venticinque anni e vuoi imparare a suonare la chitarra, ti appare sullo schermo un bambino di otto anni che già suona come un professionista. E ti senti già “troppo vecchio” per imparare qualcosa da zero.
Queste eccellenze ci sono sempre state anche in passato, ma il problema è che oggi le vediamo ogni giorno, a ogni scroll, e finiamo per pensare che loro siano la norma.
In realtà, questi talenti rappresentano solo una minuscola minoranza della popolazione, e quindi sono termini di paragone totalmente irreali.
Come se ciò non bastasse, il web è totalmente saturo di sacerdoti motivazionali, di gente più inconsapevole di te che su internet ti dice che se vuoi, puoi, che basta svegliarsi alle cinque del mattino, correre dieci chilometri, meditare, fare yoga, leggere tre libri al mese, lavorare venti ore al giorno. E magicamente: il successo è tuo. Ma questa grandissima bugia travestita da ispirazione, non tiene conto della realtà, delle inclinazioni personali di ognuno, della salute mentale, del fatto che l’essere umano non è una macchina da performance.
Ti dicono che “non hai scuse”, ma in realtà è l’ennesimo tentativo capitalistico di venderti un’altra forma di colpa.
Come se la fatica, la stanchezza e il fallimento non fossero caratteristiche umane, ma solo pigrizia.
E allora ricominci a correre più veloce, ignorando che il traguardo che ti sei posto non sei tu, ma è uno standard, e che a quello standard di te non gliene importa niente.
Ma dietro questo fenomeno si nasconde una riflessione fondamentale che, a parer mio, è legata al nostro modo di percepire la vita in chiave capitalistica: il capitalismo non è solo un sistema economico, ma una mentalità che è penetrata ovunque.
Ha inzuppato il nostro cervello, facendoci credere che avere più capacità possibili significhi essere persone migliori.
Quindi, l’avere ha totalmente sostituito l’essere, come scrisse Fromm.
Ci siamo dimenticati che siamo nati senza possedere nulla, e che lasceremo questo mondo senza portarci nulla in valigia. Ci siamo dimenticati che saper fare qualcosa, prima che servire per guadagnare qualche soldo, serve a renderci persone migliori, a formarci come individui.
Anche il tempo libero è diventato produttività mascherata.
Dovremmo suonare la chitarra per noi stessi, e invece la suoniamo per gli altri, per essere migliori di qualcun altro.
L’altro giorno ascoltavo uno psichiatra famoso che, citando David Bowie, diceva: “Never play for the audience”, ovvero: “Non suonare mai per il pubblico”.
Travasando questa citazione a tutte le attività possibili della vita, io credo di conoscere pochissime persone che non suonano per il pubblico, e posso confermare che, di solito, queste sono persone molto più soddisfatte della media.
La performance è sempre messa sopra alla gioia, alla lentezza, al fare per il semplice gusto di fare.
Noi siamo davvero fatti per raggiungere sempre di più?