Quando l’amore si cucina: la madre, il cibo e i disturbi alimentari

Ieri parlavo con una donna araba e, tra le altre cose, mi ha detto una frase che mi ha colpito molto:  “Anche io, come quasi tutte le donne mediterranee e mediorientali, ho un disturbo alimentare”. “Perchè? Che c’entra la regione da cui proveniamo? ” le ho chiesto io. E lei: “Perché le nostre madri danno affetto attraverso il cibo e lo usano come sostituto all’amore”.

Allora ho pensato che, dietro a quel famoso aneddoto in cui viene raccontato che le nonne del sud sono soddisfatte solo quando ti vedono mangiare come un facocero, si nasconde molto di più che una risata.

Che i disturbi alimentari abbiano una matrice psicologica è chiaro, ma non avevo mai pensato a localizzare geograficamente il fenomeno in luoghi “caldi”. E invece ho trovato molti studi e libri che confermano che l’alimentazione emotiva è più frequente in contesti dove il cibo ha valore simbolico e affettivo alto.

Luoghi in cui, generalmente, le donne prendono le redini della cucina, dove le madri sono “cuoche d’amore”. Donne spesso molto intelligenti e intuitive, ma non sempre molto istruite. Donne che avrebbero potuto essere molto di più che sole madri e invece si sono confinate a vivere solo per i figli.

Le nostre madri già da poppanti ci ficcano un biberon in bocca se ci sentono piangere, per poi crescere e ripeterci finisci-tutto-il-cibo-nel-piatto-l’ho-cucinato-per-te, frasi che nascondono un messaggio implicito ma tagliente: mangia-così-mi-vuoi-bene.

Le madri delle regioni dove il cibo è linguaggio d’amore, come il mediterrano e il medio oriente, sono madri che nutrono, accudiscono, si sacrificano, ma spesso non ascoltano: non c’è spazio emotivo, ma solo azioni materiali di  “dare” e “riempire”. Allora il cibo diventa il supplente del dialogo, il sostituto dello stesso, un regolatore emotivo che, erroneamente, diventa un mezzo per riempire una cosa che non si riempirà mai: il vuoto di emozioni che abbiamo nello stomaco.

Allora, il cibo che nutre è anche quello che soffoca. Laddove manca il dialogo, l’affetto si mastica, si ingoia e poi si combatte. E si combatte soprattutto perché quel mangia-così-mi-vuoi-bene, confinato solo alle mura di casa, entra in contrasto netto con il messaggio implicito che troviamo poi per strada, ovvero non-ingrassare, sii-bella-sottile-femminile. Ovvero, se cresci in una casa dove l’amore passa attraverso il cibo, ma fuori il mondo ti dice che devi-essere-magra-controllata-sexy, vieni addestrata ad assorbire questo doppio messaggio e il corpo diventa il campo di battaglia tra bisogno, colpa e ribellione.

Infatti, se le donne detengono il primato dei disturbi alimentari, non è di certo un caso: per esempio, le bambine ricevono molti più messaggi estetici dei bambini. Le madri proiettano (involontariamente) tutto ciò che hanno dentro sulle loro figlie e poi sono le donne a essere educate a contenersi, a interiorizzare il dolore invece che mostrarlo. Il corpo diventa così un contenitore di ciò che non si dice..  e un contenitore di solito va riempito. 

Cucinare per gli altri è indubbiamente un atto d’amore, ma come ogni cosa che nella nostra società viene chiamata “amore” può diventare anche una forma di controllo. Come? Occupando uno spazio, non lasciando autonomia. Questo succede nelle zone in cui le madri vivono la maternità come unico spazio possibile di identità e, in contesti dove la libertà di espressione è limitata, il corpo diventa l’unico spazio dove esercitare controllo

Cucinare può essere sì un atto d’amore, ma quando l’amore è muto, si rischia di inghiottire anche il dolore. Forse, allora, servirebbe prima capire quel vuoto che sentiamo dentro… e poi cucinare.

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