Siamo nel Gennaio del 1985 e, nonostante oggi non venga più raccontato, la Sardegna in quel periodo era qualcosa di molto pericoloso. Rapimenti, sequestri, faide, omertà. Era pericoloso girare in campagna, era pericoloso parlare di quello di cui non si doveva parlare, era pericoloso essere una persona, la cui famiglia aveva qualcosa in tasca da poter estorcere.
Sono le 17:30 a Osposidda, una campagna aspra e selvaggia tra Oliena e Orgosolo. Fa freddo, e la severità del paesaggio all’imbrunire viene addolcita dal profumo delle sue stesse piante di timo.
Tonino Caggiari, un imprenditore olianese incontra una Fiat 128, auto su cui viene costretto a salire per essere portato chissà dove. È una brava persona il signor Caggiari, ed è la stima nei suoi confronti che fa movimentare gli stessi olianesi che, prima avvertono le forze dell’ordine e poi contribuiscono alla ricerca.
Erano già stati i Romani a non essere riusciti mai a superare l’ostacolo dell’imperatività di quella campagna e, allo stesso modo, i carabinieri non sarebbero mai riusciti a risalire alle tracce dei sequestratori senza l’aiuto di persone locali, esperte nella conoscenza di quel territorio, severo come i suoi abitanti.
Non potendo competere con i fuorilegge sul piano della conoscenza del territorio, il giorno seguente ebbe inizio una vera e propria guerra d’intelligenza tra i sardi: da un lato, coloro che volevano aiutare il signor Caggiari, dall’altro, chi sosteneva i banditi che lo avevano sequestrato. Una lotta ad armi pari che presto si trasformò in un conflitto aperto, in cui i carabinieri fecero ricorso all’unica arma che avevano in quel contesto: le armi da fuoco.
Caggiari venne poi rilasciato e i banditi in fuga vennero ritrovati proprio nelle campagne di Osposidda, dove iniziò una battaglia a fuoco che durò quattro ore. Quattro ore, come quattro furono i banditi uccisi: Giuseppe Mesina, Giovanni Corraine, Salvatore Fais, Nicola Floris. L’unica vittima delle forze dell’ordine fu Il Sovrintendente Vincenzo Marongiu.
Se fosse davvero necessario macchiare di sangue per quattro ore la nostra macchia mediterranea rimane ancora una domanda aperta.
Ma quando le forze dell’ordine trasportarono i cadaveri dei banditi con le sirene e i clacson a tutto spiano, come se stessero tornando da una battuta di caccia di successo, si rivelò il vero volto di coloro che dovevano interpretare il ruolo dei “buoni” in questa storia: un volto crudele, incapace di comprendere la tragedia di una comunità in cui la criminalità non nasce per caso, ma affonda le radici in motivazioni profonde.
Lungi dal giustificare una violenza che rimane ingiustificabile, il banditismo è il frutto di secoli di oppressione e discriminazione che, come la storia insegna, generano inevitabilmente una società malsana. Ma mentre chi lancia la pietra può sempre nascondere la mano, chi la riceve non ha il privilegio di ribellarsi nell’ombra.
Quella macchia mediterranea macchiata di sangue, continua a cantare da decenni quello che Marras canta ancora oggi quasi con le lacrime agli occhi :
“Chie bos fachet luttu, mortos de Osposidda?”
Chi vi piangerà, morti di Osposidda?