Genitori che non amano i figli: riflessione sul dipinto di Gustave Doré

Nel 1874 Gustave Doré dipinse un quadro pazzesco chiamato “Les Saltimbanques”, che rappresenta una famiglia di acrobati di strada. Era infatti comune in quel periodo incontrare in giro degli acrobati che facevano divertire la gente per strada con spettacoli anche molto pericolosi. In questo dipinto Doré ci fa vedere cosa si cela dietro le quinte dell’apparenza: un bambino, ferito gravemente durante un’esibizione, sanguina moltissimo mentre è tenuto in braccio da sua madre. Il padre, vestito anche lui da artista di circo, fissa la scena impotente e con le lacrime agli occhi. 

Quando ho visto il quadro per la prima volta però, non conoscendone l’interpretazione “ufficiale”,  gli ho attribuito istintivamente un significato molto diverso e metaforico, probabilmente un significato che va oltre l’intento originale del pittore. Ho avuto una connessione fulminea con il dipinto e, ancora una volta, l’arte mi ha dimostrato la sua potenza. L’arte che riesce a parlare diverse lingue attraverso la stessa bocca.

Ci ho visto sostanzialmente una situazione familiare tossica, molto comune, ma di cui nessuno osa parlare, perché la famiglia è sacra.

Ci ho visto due genitori che, come spesso accade, usano il proprio figlio come trofeo per riscattare la loro frustrazione, il loro orgoglio personale, la loro vita non vissuta. Due genitori che non amano il figlio.

Ci ho visto un figlio che sanguina perchè ferito nell’anima, un figlio che “deve riuscire”, che “deve brillare”, per far si che la famiglia appaia in un certo modo agli occhi degli altri.

Ci ho visto un padre, truccato da clown, che ha uno sguardo vuoto, né affettuoso e né arrabbiato, ma solo perso: lo sguardo di un genitore che ha bisogno del successo del figlio per valere qualcosa, che non riesce a vedere il bambino per ciò che è, ma solo per ciò che potrebbe diventare.

E poi ci ho visto una madre che, unica figura a provare empatia nei confronti del figlio, lo stringe con tenerezza ma, simbolicamente ancora vestita da regina e con una corona in testa, è impotente e non riesce a sottrarre il figlio dal ruolo che gli è stato assegnato fin dalla nascita: il ruolo di simbolo. 

Ci ho visto la sofferenza perenne del bambino, che rimane quando gli strumenti musicali dell’apparenza non suonano più, perché gettati in un angolo della scena. Un bambino che anche da adulto non si amerà per quello che è, ma per quello che riuscirà a mostrare.

Il circo è la metafora della società che giudica tutto secondo l’apparenza. La famiglia, schiava di tutto ciò, è costretta a consolare un figlio che non ha mai chiesto di nascere, ma che è costretto a soffrire e ad esibirsi continuamente per essere accettato da coloro che dovrebbero semplicemente amarlo perché esiste.

La civetta, che di solito rappresenta la saggezza, è incatenata e pare abbia lo sguardo perso nel vuoto, quasi come fosse fuori posto. Forse rappresenta lo sguardo triste e lucido sulla realtà. 

Riflettete sul dolore che causate a vostro figlio quando scegliete per lui qualcosa che vi rende orgogliosi, piuttosto che ciò che lo rende felice: quando preferite che diventi avvocato invece che artista, ingegnere invece che spazzino, che sia eterossessuale invece che omossessuale, quando imponete il vostro ideale basato sull’apparenza, invece che accettarlo per quello che è, o quando manovrate le sue scelte per sentirvi voi lodati, invece di lasciarlo crescere libero di sbocciare nella sua autenticità.

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