Elogio alla disobbedienza: come la società premia chi finge, uccidendo la vita.

Quando qualcuno si suicida, non è raro sentir pronunciare frasi come: sembrava-così-tranquillo/a  o non-avremmo-mai-immaginato-qualcosa-del-genere-da-parte-sua. Parole che rivelano non solo lo stupore, ma anche l’incapacità di vedere oltre la superficie, oltre la maschera che molti indossano, senza neanche accorgersene.

In realtà, spesso sono proprio le persone che sembrano più pacate coloro che nascondono le crisi più profonde in modo silenzioso e, nascondendole, le alimentano in modo esponenziale. Questi credono di riuscire a vivere controllando e reprimendo la realtà per una vita intera, ma c’è un punto in cui il fiume della repressione straripa in modo prorompente e che, straripando, travolge tutto ciò che fino a quel momento era solo ed esclusivamente una maschera sociale.

La nostra società premia la maschera, ovvero premia persone tranquille, composte, prevedibili e controllate. Ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con la vita vera, che, per definizione, è esattamente il contrario: la vita è disperazione, angoscia, perdita di controllo alternate ad allegria, gioia di vivere, euforia. La vita vera è viva e, per restare viva, ha bisogno immancabilmente di contrasti, di cose belle che si alternano a cose brutte, di cibi salati che si alternano a cibi dolci, di contraddizioni. Ma coloro che si contraddicono vengono individuati, catalogati e messi ai margini. 

La società della maschera si può osservare benissimo in una città come Berlino, che si spacca in due mondi quasi opposti dal tramonto all’alba e dall’alba al tramonto: nei locali notturni più estremi, dove tutto è concesso, non è raro imbattersi in uomini e donne in latex e pelle, immersi in fantasie sessuali estreme che di giorno sembrerebbero impensabili. Eppure, il pomeriggio successivo, quegli stessi corpi, ora avvolti in giacche, cravatte e tailleur, siedono dietro le scrivanie di uffici statali, impassibili, controllati, perfettamente integrati.

Senza quel vestito da sadomaso notturno scoppierebbe, pensai, mentre con un sorriso finto quell’uomo imborghesito mi consegnava la copia del documento di cui avevo bisogno.

Ma allora mi chiedo, perchè questo estremo contrasto? Non sarebbe più semplice mostrarsi per quello che si è fin dall’inizio invece di dare vita ad un alternarsi infinito di due estremi totalmente opposti per compensare? Compensare questo eterno interpretare ruoli prefabbricati che ci portano a vivere una vita vuota e priva di senso: non sposarsi per amore, ma perché è arrivato il momento di sposarsi, non fare il lavoro che si ama, ma il lavoro statale che ci assicura una buona pensione, non scegliere di studiare ciò che ci piace, ma ciò che ci assicura un lavoro che non amiamo (quando scelsi filosofia all’università, la domanda che per prassi mi sentivo ripetere nel 90% dei casi era: e-dopo-che-lavoro-farai?) 

In altre parole, recitare eternamente una parte che non ci appartiene.

Coloro che vivono secondo il proprio istinto e le proprie regole invece, vengono osservati con un misto di emozioni, collocabili tra il fastidio, l’invidia e l’attrazione: con la loro vulnerabilità e le loro contraddizioni, ci ricordano che la vita non è semplice, che la sicurezza è un’illusione, mettendo così in crisi l’illusione collettiva che tutto sia sotto controllo. La presenza di questi (pochissimi) spiriti liberi mette in crisi, il loro fuoco stravolge, ma questo stravolgimento rende la loro vita piena e, quindi, degna di essere vissuta. 

Ma la libertà però ha un prezzo: come diceva Kierkegaard, l’angoscia è un’esperienza inevitabile per chi cerca di vivere con consapevolezza. Questo sentimento, doloroso ma essenziale, nasce dalla libertà: quando ci rendiamo conto che non siamo semplicemente ingranaggi di un sistema, ma possiamo essere liberi di scegliere, ci sentiamo sopraffatti.

Allora si presenta la crisi che qualsiasi spirito libero deve affrontare: la disperazione di voler essere se stesso, che si sprigiona quando si rende conto della propria falsità e, di conseguenza, cerca di riconquistare se stesso.

Le maschere invece, cercano di fuggire dal dolore, alimentando così un’illusione perenne che, a lungo andare, porta all’autodistruzione, essendo così disperati a vita per il fatto di non voler essere se stessi. 

Ma è meglio affrontare un dolore intenso e temporaneo, piuttosto che trascinarsi addosso un dolore costante, sottile ma eterno.

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