Dietro il quadratino di una cella: guardare chi sbaglia negli occhi

Sono stata in un carcere abbandonato e, come accada quasi sempre, i luoghi abbandonati in cui si respira una sofferenza ormai dormiente scuote l’anima, almeno un pò.

Tra tutte le foto che ho scattato in questo posto, una di queste ritrae il quadratino di una cella: dentro è buio pesto, fuori c’è la luce.

Quel quadratino è veramente piccolo e un detenuto vede la vita da lì dentro, ho pensato. Cosa prova una persona, seppur abbia sbagliato, a esser privata della libertà e a vedere il mondo da quel quadratino lì per anni, e anni, e anni? La luce della vita al di fuori e il buio della morte della libertà che gli sta a fianco, giorno per giorno.  

Tema molto divisivo, quello delle carceri. I pregiudizi comuni sono inzuppati sempre dalla voglia di vedere chi ha sbagliato soffrire esageratamente: “Se ha ucciso, non merita alcuna pietà” o ancora “Chi sbaglia paga”. “Gli danno vitto e alloggio e quando esce gli trovano pure un lavoro!” dicono altri, e altri ancora vedono il detenuto come una minaccia continua: “È pericoloso per la società”.

In casi estremi (stupri, omicidi) questo istinto diventa quasi inevitabile: è difficile immaginare di “accettare” chi ha fatto un gesto così atroce.  E, insomma, un po’ si capisce, sono argomenti umani: se mi immagino di dover guardare in faccia una persona che ha ucciso o stuprato una mia ipotetica figlia, non so come reagirei, non so quali giudizi uscirebbero dalla mia bocca (e spero di non saperlo mai).

C’è però un fallacia argomentativa enorme in queste frasi più dettate da un istinto primordiale che dalla ragione: un detenuto è una persona, ognuna con contraddizioni, paure e ognuna ha una possibilità di rinascita. Ma è solo una possibilità e va coltivata: non perché dobbiamo trasformarci tutti in Madre Teresa di Calcutta che aiuta e perdona tutti, ma per una questione pratica, ovvero: ci giova sia il detenuto, che la società stessa.

Un detenuto che esce dal carcere dopo aver vissuto in celle sovraffollate che puzzano di pipì, senza aver avuto contatti con famiglia e amici per anni, magari picchiati da altri detenuti e tante altre belle cose, non è solo una vittima del sistema: rischia di diventare molto più pericoloso di chi, invece, ha avuto la possibilità di vivere decentemente, magari supportato psicologicamente e trattato come una persona, invece che come una bestia. È un problema enorme, perché la società crea in questo modo il pericolo che poi teme.

L’istinto naturale di punizione, seppur comprensibilissimo, non funziona. Nei paesi nordici, dove i detenuti vengono rieducati in carcere,  trattati come persone civili con formazione e supporto psicologici, la recidiva crolla. Ma una situazione più decente all’interno delle carceri non è una “bacchetta magica”: i risultati migliori si ottengono solo se al rientro il contesto sociale è favorevole. Ovvero, quando escono dal carcere, i detenuti trovano un lavoro, un sostegno sociale, disuguaglianze quasi nulle ecc. Punire senza reinserire significa solo creare nuovi criminali.

Come sempre, la risposta a una domanda così complessa, è molto più complessa della domanda stessa: ma se ci si ragiona un pochino su, la soluzione esiste, ma non la accettiamo.

Allora bisognerebbe tornare a guardare la realtà da quel quadratino di cella e chiedersi se, come società, vogliamo continuare a chiudere le persone nel buio o aprire spiragli di luce.

Ma la società è sempre il riflesso delle paure e delle contraddizioni che rifiutiamo di vedere dentro di noi, e forse, inconsciamente, non accettare chi sbaglia significa non voler affrontare le parti oscure che abitano incarcerate dentro di noi.

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