Si dice spesso che, per noi del sud, emigrare sia una necessità e che, se potessimo, torneremmo volentieri a vivere nel posto in cui siamo nati.
Alcuni giovani sardi però, più che costretti a partire, sentono inizialmente l’impulso di scappare. Spinti da un’eterna curiosità di sapere cosa c’è al di là del mare, e da una fame di prendersi, in qualche modo, la vita che credono gli spetti. Sono quella categoria di giovani emigranti che, a parer mio, sono più fragili degli altri. Sono quelli che, quando sono fuori dalla Sardegna ci tengono a dire che sono sardi e quando tornano sull’isola ci tengono tanto a dire che vivono all’estero (nonostante tutti lo sappiano già).
Ho deciso di chiamarli “i nuovi Erostrati”, perché mi ricordano tanto la famosa storia di Erostrato.
Erostrato era un signore greco che aveva una sola cosa in mente: rimanere nella mente delle persone, rimanere nella storia. Allora, senza pensarci troppo, decise di fare una cosa che nessuno avrebbe mai dimenticato: dare fuoco a una delle sette meraviglie del mondo, il tempio di Artemide a Efeso. Quando fu catturato, disse chiaramente che lo aveva fatto semplicemente per rimanere nella storia e, in effetti, ci riuscì visto che quasi duemilaquattrocento anni dopo stiamo ancora parlando di lui.
Se questo racconto sia totalmente vero o in parte romanzato ha poca importanza, visto che ci ha lasciato un simbolo potentissimo: l’idea di distruggere qualcosa di sacro per essere ricordati.
Io ci sono stata a Efeso, in Turchia, e del tempio di Artemide sono rimaste solo le rovine. Allo stesso modo, di molti giovani sardi incontrati nei miei dieci anni all’estero, di alcuni non restano che le rovine.
Molti giovani sradicati, lasciano un’isola dove, culturalmente, non esistono gerarchie e si ritrovano in un mondo gerarchico, competitivo, che li umilia o li inghiotte.
E allora, nel bisogno disperato di valere agli occhi di chi è rimasto, bruciano qualcosa di sacro: loro stessi. Si bruciano nell’identità, in scelte autodistruttive ma visibili, clamorose. Si bruciano nel corpo con droghe, tatuaggi (non è il tatuaggio in sé il problema, ma quando diventa una maschera disegnata sulla pelle, quando non è più scelta, ma una necessità).
Fino ad arrivare a gesti simbolici come rifiutare radicalmente la propria origine, vergognarsene, rinnegarla, ridicolizzarla pubblicamente. Oppure l’opposto: enfatizzarla fino alla caricatura, in modo quasi teatrale (abiti, linguaggio, pose), che sembra quasi un modo per dire io-sono-più-sardo-di-tutti-voi
E’ una riflessione che sono stata spinta a fare senza nessun intenzione di giudizio, ma perchè anche io sono una ragazza che ha lasciato la sua isola giovanissima e vi assicuro che, in momenti di fragilità e confusione, non è raro cadere nella trappola di un bisogno fortissimo di essere visti, di esistere, fino ad arrivare a fare azioni estreme.
(In realtà la nostra epoca sforna continuamente “nuovi Erostrati” che venderebbero la loro madre a costo di farsi notare, ma questa è un’altra storia).
Questa riflessione ha lo scopo di farci porre delle domande su cosa sia la libertà, la responsabilità e il senso della vita.
Per diventare qualcuno, Erostrato ha dato fuoco a uno dei templi più belli del mondo antico. Voleva essere ricordato. Oggi, migliaia di giovani partono dalla Sardegna verso città che non li aspettano. E qualcuno, in un silenzio moderno e freddo, brucia se stesso solo per essere visto.