“Se tratti una persona come se fosse ciò che potrebbe essere, diventerà ciò che potrebbe essere” scrisse Goethe.
Prima che il benessere invadesse le nostre case, prima che gli smartphone si sostituissero alle storie raccontate da una madre, un padre, uno zio; i bambini venivano trattati come dei piccoli adulti e considerati come soggetti attivi. Venivano trattati come persone potenzialmente capaci di affrontare prove concrete di forza, autonomia e responsabilità.
A Sparta i bambini venivano letteralmente prelevati alle loro case a sette anni, per iniziare un addestramento durissimo chiamato Agoghé. Venivano sottoposti ad allenamenti durissimi, privazioni (fame, freddo, vestiti leggeri anche d’inverno) ed educati alla furbizia: incoraggiati a rubare ma, se trovati in flagrante, venivano puniti. Era un modo molto crudo per sviluppare ingegno e astuzia.
Senza andar troppo lontano, mio nonno a sette anni dormiva da solo in campagna per far si che nessuno rubasse il gregge (ma ve lo immaginate oggi un bambino occidentale di sette anni che dorme da solo in campagna?). Addirittura mi racconta che, essendo la sua una famiglia molto povera, non aveva mai dormito in un letto fino all’età di diciannove anni, età in cui andò via di casa per lavorare in un altro paese.
Più che trovare un letto su cui dormire, io, a diciannove anni, sono dovuta partire in un altro stato per cercare un letto più scomodo. La mia cameretta, colorata e piena di pupazzetti, con un materasso confortevolissimo e le lenzuola sempre profumate, è rimasta fino ad oggi sempre intatta, come una fotografia di ciò che al tempo poteva essere la mia potenziale condanna. Far crescere un bambino in un ambiente eccessivamente confortevole è, infatti, una condanna.
Il fatto che tendiamo a privare i nostri figli del dolore evitandogli qualsiasi tipo di frustrazione, che parliamo loro con vocine ridicole, come se fossero incapaci di capire, che rimuoviamo ogni ostacolo dal loro cammino prima che si presenti, è un eterno anestetico che rende la vita piatta, perchè ammazza il desiderio. Che cosa può desiderare un bambino, se il suo desiderio è già stato annientato prima ancora di nascere, perché non gli resta più nulla da desiderare?
Se, per esempio, prendiamo il concetto di vendetta nel codice barbaricino sardo da una prospettiva educativa (al di là del fatto che questo sia giusto o sbagliato, ovviamente), scorgiamo infatti un modo diverso di intendere la responsabilità dell’individuo: non è un’autorità esterna a risolvere i problemi che si presentano, ma è l’individuo stesso, seguendo delle precise regole condivise. Così come il concetto del furto, che tende a rendere responsabile prima la vittima del ladro e che, tradotto, suona più o meno così: se sei incapace di badare e proteggere ciò che è tuo, allora ti prendi le conseguenze. Questo modo di concepire attivamente l’individuo, di renderlo responsabile a priori, che fino a mezzo secolo fa era ancora parte della mentalità sarda, è stato, col tempo, gettato via, lasciando germogliare soggetti passivi in cerca di emozioni istantanee per anestetizzare qualsiasi tipo dolore.
Questo non significa che si debba gettare un bambino in mezzo alla neve a mezze maniche per imitare i bambini spartani o che si debba costringerlo a dormire in un bosco per fare le stesse cose che facevano i nostri nonni alla sua età, ma è importante estrapolare da questi confronti la lezione che ci serve. Al di là di tutte le cicatrici psicologiche che un’educazione spartana non ponderata possa portare con sé, è inevitabile che quel bambino che, a sette anni, dorme da solo in campagna di notte, è destinato a sviluppare una mentalità e una resilienza completamente diverse da chi, cresciuto a Kellogg’s e pupazzetti, non ha mai dovuto affrontare neanche la minima difficoltà.
Non si tratta di tornare a Sparta o alla faida, ma di recuperare il concetto di responsabilità personale, con la giusta misura. Si tratta di iniziare a trattare un bambino come ciò che dovrebbe essere: un essere autonomo, figlio e padre di se stesso; perché solo affrontando la realtà si diventa adulti. E la realtà è tutt’altro che confortevole.