Noi esseri umani moderni, immersi in un’epoca di sughi pronti, serie TV e calcolatrici che fanno i calcoli per noi, abbiamo travasato la nostra passività anche nella storia.
Ma, purtroppo, la storia non è finita: è tutt’altro che veloce, non è semplice, né facilmente digeribile. Gli eventi non sono scollegati gli uni dagli altri e, anche se facciamo finta di saperlo, ciò a cui stiamo assistendo in questo momento, sta lentamente mettendo radici, decidendo già oggi ciò che succederà domani. Un domani che, probabilmente, noi non vedremo neanche.
E’ come quando si è bambini: succedono cose che spesso dimentichiamo, ma che continuano a manovrare i nostri comportamenti fino alla nostra morte. E il bello è che noi manco lo sappiamo.
Ma mentre i nostri bambini vengono intrattenuti da Netflix, i bambini palestinesi assistono in questo momento a un intrattenimento molto macabro: il genocidio del loro popolo. Loro non lo sanno ancora, ma tutte le atrocità, il dolore, il sangue, le urla, i pezzi di polmoni sfracellati, la visione delle madri, dei padri, dei fratelli e delle sorelle morti sotto le bombe, saranno immagini impresse che alimenteranno ancora e ancora il risentimento, che è ciò che starà alla base di un futuro conflitto. Chi non diventerebbe parte di una milizia criminale per vendicare la sua infanzia distrutta dalla malvagità dell’uomo?
Ed è esattamente quello che è successo agli ebrei: anche loro, perseguitati e oppressi da secoli, hanno trovato un rifugio dopo la Shoah, per trasformarsi essi stessi in oppressori.
Probabilmente gli ebrei più radicali, quelli che vogliono vedere i palestinesi ridotti in cenere dal primo all’ultimo, sono quelli che hanno portato sulle spalle il peso dell’oppressione secolare subita dai loro padri.
Questi popoli oppressi interiorizzano il dolore, lo trasformano in identità e, spesso, in risentimento e in vendetta. E il risentimento interiorizzato è come un tumore: è sempre lì, in agguato, pronto a invadere tutto il corpo non appena le difese immunitarie abbassano la guardia.
Sono traumi fondativi, veri e propri combustibili della rabbia di domani. Come diceva la Fallaci, la guerra è un obbrobrio assurdo, ed è ipocrita rallegrarsi per un trapianto di cuore riuscito mentre migliaia di cuori smettono di battere sotto le bombe. Ma il problema è ancora più profondo: la guerra non è solo un orrore, è un sistema che si autoalimenta. Perché il punto è che gli esseri umani non dimenticano, accumulano.
E se tra i due litiganti c’è sempre un terzo che gode, chi è quella parte di mondo che si autodefinisce più civilizzata e che osserva da spettatore? È la “democrazia” occidentale, un tempo pioniera del colonialismo, oggi fornitore di armi e risorse affinché possiamo continuare ad assistere alle più gravi atrocità del nostro secolo. Uno spettatore solo in apparenza, perché in realtà è anche la causa indiretta di questo ciclo di violenza, un regista occulto che alimenta il conflitto mentre finge di volerlo risolvere.
Bisogna riconoscere il dolore reciproco. Bisogna essere quel bambino palestinese che ha visto sua madre squarciata a metà, che ha visto il sangue spruzzare sulle macerie. Bisogna essere quel bambino ebreo che ha visto la sua famiglia sterminata e ha ascoltato racconti familiari di atrocità indicibili. Bisogna avere una memoria condivisa.
Forse scrivo di utopie, ma dividere il mondo in giusti e sbagliati, vedere la realtà in bianco e nero, ridurre tutto a un lupo cattivo e un agnello inerme è molto stupido. Per spezzare questo ciclo infinito di violenza serve un atto radicale: qualcuno deve posare le armi.
Altrimenti, non stiamo solo guardando una guerra: stiamo assistendo alla nascita della prossima.