Durante una cena d’estate, seduti nel terrazzo di mia nonna, si chiacchierava del più e del meno. Io, da brava adolescente, davo prova del mio talento nel divorare tutto ciò che trovavo nel piatto. Siccome a quell’età, se niente è andato storto, si è in quella fase gloriosa in cui le regole sono un optional e, quindi, anche il galateo è un concetto astratto, mi pappai fino all’ultima patata fritta, senza lasciarne nemmeno una per mia sorella. Lei, fulminandomi con lo sguardo, non si scompose e sentenziò con la lascivia di una donna ottocentesca: “Sas pretas chi ti maniches!” – Che tu possa mangiarti le pietre!
Neanche il tempo di metabolizzare l’imprecazione, che il cielo decise di scurirsi: prima qualche goccia, poi una pioggia battente. Un passante, purtroppo privo di ombrello, gridò: “Brocchettos de 30 chi proata!” – Che possano piovere blocchi di calcestruzzo da 30 kg! A quel punto, fradici e piegati dalle risate, ci rifugiammo in casa, mentre quella pioggia d’estate continuava a cadere, fortissima.
Sebbene ad occhi esterni imprecazioni di questo tipo possano sembrare solo oscenità che violano tabù e perbenismo, ad un osservatore attento potrebbero rivelarsi come qualcosa di più: come degli strumenti. Strumenti che palesano delle tensioni e, perciò, che fungono da ribellione contro un potere esterno (in questo caso, il potere del fenomeno naturale, la pioggia, che non si può contrastare in nessun modo o il potere della fame inarrestabile di una ragazza adolescente e piena di vita).
Partiamo, come sempre, dall’inizio.
Il popolo sardo non è un popolo che aspira a comandare, ma non vuole neanche essere comandato (almeno, in origine lo era). Diventare “izzu e babbu de isse mantessi” – figlio e padre di sé stesso, oltre a essere un modo di dire comune, è proprio un modo di percepire la vita: una specie di anarchia auto controllata, in cui nessuno è padrone di nessuno, ma ognuno è padrone di se stesso.
Tristemente però, i libri di storia ci raccontano che la peculiarità innata di questo popolo non è mai stata pienamente espressa, ma è stata costantemente repressa dall’esterno, motivo per il quale il sardo ha sviluppato una sfiducia radicale verso tutto ciò che proviene dal ‘continente’ (con ‘continente’ in Sardegna si designa tutto ciò che non è Sardegna, anche la penisola italiana). La giustizia imposta dall’esterno è sempre stata percepita come estranea, e questa percezione ha radici storiche. Un esempio calzante è il codice barbaricino: un insieme di leggi interne alla società pastorale dell’epoca, che, soppresso e distrutto dalla giustizia statale imposta dal ‘continente’, ha generato un’instabilità permanente che ancora oggi resta irrisolta sul piano sociologico.
Partendo da questo presupposto, mi ha catturato un’intuizione molto curiosa: che questo modo caratteristico di imprecare, si sia sviluppato come risposta simbolica, una specie di rivincita per una libertà mai raggiunta totalmente . Tutti (e dico tutti) i sardi hanno imprecato almeno una volta nella vita, che fosse contro la legge, contro la pioggia, il caldo, la malasorte o contro qualcuno che li ha fatti arrabbiare.
Non a caso ci sono tantissime imprecazioni contro la Giustizia e la Legge (dove con giustizia e legge, s’intendono sempre quelle esterne e mai quelle interne alla comunità), o addirittura vere e proprie rime: Zustissia ti brusiet, zustissia t’incantet. Zustissia bi colet e non lesset mancu chisina – La Giustizia ti bruci, la Giustizia ti incanti (cioè ti renda ebete). La Giustizia passi e non lasci neanche la cenere.
La Giustizia fatta dagli uomini, quella ufficiale dello Stato, è molto più intimidatoria di quella divina, agli occhi di un sardo, che vede il linguaggio della stessa estremamente distante dal suo. Il sardo, che guarda la burocrazia come un film straniero senza sottotitoli, utilizza l’imprecazione diretta, viscerale, senza filtri per riaffermare una libertà espressiva che né lo Stato, né nessun’altra autorità può controllare.
Quindi, per dirla in termini usati dalla psicanalisi, l’imprecazione potrebbe rappresentare il soddisfacimento del desiderio represso di rifiutare le dominazioni esterne, attraverso la violazione di un tabù linguistico che sospende l’obbligo della sottomissione. Una specie di liberazione, un meccanismo di sfogo utilizzato per non poter agire direttamente contro una frustrazione.
Le imprecazioni in sardo sono spesso molto volgari o sacrileghe, perciò rompono le regole imposte dalla società e riportano temporaneamente a una dimensione anarchica. In pratica, esprimendo un pensiero “proibito”, ci si crea uno spazio liminale, spazio temporaneo in cui si esce dalla struttura sociale ordinaria e si esprimono impulsi più profondi e autentici.
Queste imprecazioni, non sono solo rimaste marginate alla giustizia e alla malasorte, ma anche agli esseri umani, per esprimere dissenso, spesso con un mix di crudeltà e ironia.
Quindi, se esci da una stanza e non chiudi la porta, qualcuno potrebbe gridarti istintivamente “Sas manos che sa minca e nonnu” – Che ti possano diventare le mani come il membro di mio nonno (cioè secche, perché è morto). O se ridi per disgrazie altrui, potresti sentirti augurare “su risu e sa granata, chi s’est abberta e non s’est tancata” – che la tua bocca possa rimanere aperta (mentre ridi), come una melagrana rimane aperta quando matura (e quindi, non si chiude).
Ma meglio non prenderla mai sul personale: è solo una metafora culturale, uno strumento con cui un popolo sfoga la propria rabbia per non essere mai riuscito ad autogovernarsi completamente.
1 commento
Possiedi una Stupenda arte del racconto❤️ Alle 7 del mattino sei riuscita a farmi emozionare e ridere allo stesso tempo oltre ad avermi riportato a dei momenti bellissimi della mia vita❤️