Perché spogliarti non ti rende libera.

“Chiunque sia abituato a osservare senza essere visto, impara cose che nessuno dovrebbe sapere.”  Carlos Ruiz Zafón

Se si chiedesse a un bambino quale super-potere vorrebbe avere, è molto probabile che questo risponda di voler essere invisibile. Un bambino, infatti, intuisce che essere invisibile è un potere che gli permette di vedere senza essere visto, di fare marachelle senza essere sgridato, di fare cose proibite evitando qualsiasi punizione o giudizio. 

Sappiamo che la nostra società, oggi, si basa esattamente sul contrario dell’invisibilità: essere visibili è un valore aggiunto, un potere che tutti vorrebbero, quasi un obbiettivo da raggiungere. Acquisire visibilità ci farebbe quasi salire i gradini verso l’affermazione, ci permetterebbe di gridare al mondo chi siamo, rendendoci così “liberi”. 

Ma davvero possiamo sentirci liberi nel momento in cui tutti ci osservano? 

Iniziamo parlando di libertà femminile, per cercare di andare a fondo sul significato dell’essere liberi, nel momento in cui abbiamo gli occhi puntati su di noi.

Simone de Beauvoir scrisse una frase, importantissima per ricalcare il suo contributo all’emancipazione femminile, che viene (quasi) sempre male interpretata, ovvero: “Non si nasce donne, si diventa”

De Beauvoir non intendeva di certo dire che essere donna è qualcosa che si conquista o si guadagna, come un ruolo che si costruisce nel tempo. Questo tipo di interpretazione ci rimanda all’idea che diventare donna, come gli altri si aspettano, possa essere visto come un processo positivo e di auto-affermazione, un po’ come “meritarsi” di essere donna, comportandosi in alcuni modi, piuttosto che in altri. E non c’è niente di emancipato in questa ennesima formula di controllo: ti devi comportare così, per far sì che la platea ti applauda e ti dica che-brava!-sei-diventata-una-vera-donna.

In realtà il messaggio che si cela dietro questa frase è esattamente il contrario: Non è la nostra biologia a determinare il nostro comportamento da donne, ma è il modo in cui siamo trattate, dal momento in cui veniamo al mondo fino alla nostra morte. Questo ci condiziona a tal punto da diventare quello che gli altri ci hanno celatamente imposto di dover essere: donne, consenzienti, umili, mai ambiziose, crocerossine, pazienti, composte, ma allo stesso tempo appetitose, seducenti, disponibili, attraenti. In altre parole, non sono i nostri genitali a renderci “donne”, nel senso sociale del termine, ma il modo in cui la società impone certi ruoli. Il processo di “diventare donna” non è assolutamente un realizzarsi positivo o un acquisire un valore specifico, ma è piuttosto il risultato delle dinamiche sociali che costringono le persone ad adattarsi a determinate aspettative. Ovviamente, senza che queste se ne accorgano. (ricordi quella frase di Goethe che diceva qualcosa del tipo “se tratti una persona come ciò che potrebbe essere, diventerà esattamente ciò che dovrebbe essere”?!).

Tra queste aspettative, per le donne, c’è, oggi, sicuramente, l’essere attraenti per gli uomini, motivo per il quale, nel momento in cui ci si spoglia in modo provocativo, credendo in questo modo di conquistarsi una libertà aggiuntiva all’interno della società, bisogna stare allerta e chiedersi se ci stiamo mostrando nel modo in cui gli altri vogliono vederci o nel modo in cui ci sentiamo di doverci mostrare.

E voi, giustamente, vi starete chiedendo: ma come, ci è stato proibito per secoli di mostrare il nostro corpo, i nostri bei seni prosperosi e le nostre cosce ben depilate e, ora che possiamo farlo, non dovremmo?

E’ vero che, con l’emancipazione femminile e la rivoluzione sessuale, le donne si sono ribellate e hanno deciso di mostrare il proprio corpo liberamente, rompendo così un tabù imposto da secoli.

Ma, questa nuova libertà, è davvero tale? o è diventata, nel tempo, solo una trasformazione del controllo?

Forse oggi il controllo viene esercitato sulle donne in direzione opposta: se prima, infatti, la norma era copriti-dovresti-vergognarti, controllando così i comportamenti delle donne in modo esplicito, oggi la situazione si è invertita e, spacciando un meccanismo di controllo per libertà, la nuova norma (tutt’altro che esplicita) è: Mostrati-il-tuo-corpo-è-potere.

In moltissimi casi, per noi donne, spogliarci è il risultato di un meccanismo che ci costringe a metterci a nudo, non nudo inteso solo in senso carnale, ma in senso sociale: ci rende estremamente visibili e, perciò, in continua osservazione e, di conseguenza, controllabili.

L’essere continuamente osservate ci costringe ad auto-controllarci senza accorgercene.

Un esempio perfetto per illustrare questo meccanismo tossico, è quello del prigioniero nel panopticon di Foucault. Il panopticon, infatti, era un tipo di prigione in cui c’era una guardia, invisibile ai prigionieri, che poteva sorvegliare tutti loro, senza che questi sapessero QUANDO o SE venivano osservati. In questo modo si riusciva a controllare il comportamento dei prigionieri, senza alcuno sforzo.

Se al posto della guardia ci piazziamo lo sguardo sociale che ci induce a scoprirci (mentre prima ci induceva a coprirci), e se al posto dei prigionieri immaginiamo le donne che si adeguano spontaneamente a questa regola, scopriamo che, in entrambi i casi, il corpo femminile viene definito da uno sguardo esterno, non da un desiderio autentico della donna a fare quello che gli pare.

Quindi, col tempo, ciò che prima poteva essere considerata un’autentica e doverosa ribellione, si è sostituita alla regola precedente, trasformandosi così in una nuova norma invisibile. In pratica, continuano a controllarci, ma con il nostro consenso. 

Allora, da brave donne emancipate, bisognerebbe chiederci se amiamo realmente la condizione in cui ci rendiamo estremamente visibili e spoglie o se abbiamo solo interiorizzato il bisogno di essere guardate.

Dovremmo però ricordarci che l’invisibilità è una forma di controllo: chi non è visto non è regolato dalle aspettative altrui.

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